MATTEO CORRADINI. È stato ospite della rassegna Leggere in famiglia organizzata da For Kids in collaborazione con il Sistema Bibliotecario Brescia Est, nel suo tour nelle biblioteche e nelle scuole ha raccontato con lievità e profondità un pezzo di storia drammatico, doloroso che noi adulti abbiamo ben impresso nella pelle grazie ai racconti di chi quel passato lo ha vissuto e lo ha attraversato. Ma i ragazzi di oggi da quell’esperienza sono lontani, eppure Matteo in ogni incontro è sempre riuscito a catturare la loro attenzione, a trasformare il brusio distratto iniziale in silenzio assoluto, a tratti commosso. Matteo Corradini è uno scrittore di libri per ragazzi e saggi per adulti, è un ebraista, dottore in Lingue orientali con specializzazione in lingua ebraica, si occupa di didattica della Memoria e fa parte del team di lavoro del Museo Nazionale dell’Ebraismo e della Shoah. L’ultimo suo libro è “La repubblica delle farfalle” (Rizzoli), un romanzo che racconta di Terezin, di quello che fu quel ghetto in cui venivano raccolti gli ebrei prima di essere smistati per i campi di concentramento o di sterminio. Nei 2 anni e mezzo di vita del ghetto 155 mila ebrei sono passati a Terezin, di cui 15 mila ragazzi. Alla fine della guerra di quei ragazzi ne sono rimasti vivi solo 142.
Il romanzo racconta la vita all’interno del campo grazie agli occhi e ai pensieri di un ragazzo cecoslovacco internato; uno di quelli che, insieme ad alcuni compagni, componeva di notte e di nascosto Vedem, uno dei giornali che venivano clandestinamente pubblicati e distribuiti nel campo, in cui venivano raccolte poesie, racconti, disegni, ma anche cronaca di quel che succedeva.
Insieme a Matteo abbiamo ripercorso i passaggi che hanno portato a questo libro e non solo…ci ha regalato anche qualche anticipazione su ciò che arriverà.
La repubblica delle farfalle è un romanzo che si basa su una ricostruzione storica molto attenta e documentata, quale spazio hai lasciato all’immaginazione?
È strano dirlo, ma qualsiasi libro di storia richiede molta immaginazione. La chiede a chi lo scrive e la chiede a chi lo legge. Lo storico si appoggia ai dati, alle parole, alle proprie ricerche e alle ricerche valide che sono state fatte prima della sua. Però ha bisogno e desiderio di immaginare, di vedere dietro quei dati e quei nomi, le facce, i luoghi, di sentirsi dentro quel che è successo nella storia che sta ricostruendo. Immaginare non significa per forza creare una finzione. Anzi, a volte ci permette di avvicinarci di più alla verità. Se sento una persona al telefono e capisco che la sua voce è preoccupata, immaginerò per quali motivi la è. E questo sforzo di immaginazione mi permetterà di decidere come agire: se la persona è una cara amica, chiedendo nel modo giusto. Se la persona è meno amica, provando in altri modi. Oppure non provando per nulla. Accade così anche per la storia. Fare ricerca storica seria significa sfruttare l’immaginazione per avvicinarci alla realtà. Il mio libro è un romanzo, e avevo il desiderio di tenermi molti spazi per l’immaginazione più libera: i caratteri dei personaggi sono “miei”, i sogni e gli incubi sono “miei”. Lo scrittore è come il tè nel colino: quando una storia passa attraverso di lui, per forza dopo non è più la stessa. Non è detto che sia migliorata o peggiorata. È la sua.
Quando e come è nata la tua passione/ossessione per Terezin?
È nata nel 2003, per caso. Mio fratello abitava a Praga da pochi mesi e a fine gennaio di quell’anno decisi di andarlo a trovare. Avevo già letto tanto sul ghetto di Terezin e trovandomi a Praga è stato più forte di me. “Ci vado” mi son detto un giorno. Era il 30 gennaio, nevicava fortissimo ma qualcosa mi spingeva a prendere comunque il pullman per Litomerice, e scendere qualche chilometro prima del capolinea, a Terezin. Da allora qualcosa mi è rimasto dentro, non posso fare a meno di tornarci continuamente. Ogni anno. Anche due volte all’anno. Altri luoghi della Shoah mi hanno colpito duramente, ma Terezin è l’unico luogo a cui sono veramente affezionato.
Nei tuoi libri e negli incontri con le classi porti i bambini e i ragazzi dentro una storia che è loro lontana cronologicamente. Come riesci a renderla attuale e vicina? Quali sono i temi e i “tasti” che aiutano i bambini e i ragazzi di oggi ad entrare in quel nostro passato?
Ai nostri occhi la Shoah è qualcosa di vicino. Agli occhi delle generazioni più piccole e giovani appare invece come un evento lontano. Le Guerre Puniche, Napoleone, la Shoah… fanno tutti parte di un passato genericamente distante. Non esistono trucchi o ricette, per fortuna, perché i ragazzi possano avvicinarsi alla storia con curiosità e simpatia. Io ci provo così: resto lontano dalla violenza, anche quando ne parlo. Resto lontano dall’effetto sorprendente o disgustoso della storia e resto vicino, o perlomeno ci provo, all’interiorità dei ragazzi. Grazie al cielo molti di loro non conoscono la violenza fisica sulla propria pelle e non possono capire quella grande violenza che subirono gli ebrei in quegli anni. Però un bambino, un ragazzo, un adolescente, possono avvicinarsi a certe sensazioni. La paura, la fame, la solitudine, l’abbandono, l’umiliazione: nessuno di loro prova questi aspetti nella stessa maniera di allora, ma sono piccole briciole di emozione che ci aiutano ad avvicinarci al passato, pur nella certezza che non potremo mai capire da dentro cosa provava un ragazzo nella Shoah. L’abbandono, l’umiliazione, la paura generata: non sono meno violenti della violenza fisica. Sono essi stessi Shoah, e capirli significa comprendere anche una parte della violenza fisica.
Nei tuoi incontri la storia la si tocca attraverso gli oggetti: vecchie cartoline, fotografie, un cucchiaio usato a Terezin, una stella… Come hai recuperato questi oggetti?
Qui e là. La canzone diceva che bisogna avere orecchio. Qui bisogna avere occhio. Dopo un po’ si impara, e cercando sui mercatini, da improbabili rigattieri, da vecchi antiquari disillusi in giro per l’Europa si recuperano pezzi di storia. Ovvio, bisogna recuperarli da chi non li conosce, altrimenti il trucco non vale. Nel tempo ne ho recuperati molti: parlano di Terezin prima che diventasse ghetto (sono foto di guarnigioni austriache, documenti, mappe, cartoline) e di Terezin durante l’occupazione nazista (carteggi, buste, pacchi, suppellettili…). E poi ci sono gli strumenti musicali di marca Zalud. Suonati dagli ebrei in ghetto, ne ho tre: un clarinetto, un ottavino e un mandolino. Li porto in giro grazie a tre straordinari musicisti: Gabriele Coen (clarinetto), Enrico Fink (ottavino) e Riccardo Battisti che suona la fisarmonica. Il mandolino è in restauro e spero possa suonare il prossimo autunno.
Nelle tue ricerche hai trovato anche un clarinetto. Ci racconti la sua storia?
È uno stranissimo clarinetto in chiave di Do, tipico della musica tradizionale e klezmer dell’Europa Centrale e Orientale. Costruito a Terezin, fu suonato a Praga in libertà da un ebreo. Poi, ebreo e clarinetto furono deportati a Terezin. E il clarinetto fu suonato là, nel ghetto, per resistere alla nostalgia e alla disperazione. L’ebreo fu poi portato via e trascinato ad Auschwitz, dove morì. Il clarinetto si salvò. Non ha suonato per settant’anni. Ora è stato restaurato ed è tornato a far sentire la sua voce, che è una voce che ha il sapore di quella nostalgia, di quella disperazione. Quando viene suonato, ci senti dentro il dolore, è come l’urlo di chi ha perso qualcuno. “La farfalla risorta” è il mio spettacolo dedicato a lui, dove il clarinetto torna a suonare.
A breve uscirà un tuo nuovo libro per i lettori dai 10 anni che sarà seguito da un altro romanzo per lettori più grandi, dai 12 anni. Ci dai qualche breve anticipazione?
Cosa posso dire? Vediamo. Il libro per i ragazzi di dieci anni esce per Einaudi Scuola e parlerà proprio di quel clarinetto misterioso e di come una ragazza praghese ritroverà la sua storia, accompagnata da tre strambi musicisti punk. L’altro, per ragazzi più grandi, uscirà a fine agosto per Rizzoli. C’è una ragazza che vive da sola. Ha undici anni. Il suo nome comincia per A. Ha una cara amica, che comincia per V. Tutto avviene a casa di A e nel suo paesino di campagna, nelle stradine dove A va a correre. Ma soprattutto dentro di lei…