Silvana De Mari
1 maggio 2006 di Redazione
Silvana De Mari

Appassionata, tenace, con una scrittura rapida e al tempo stesso intensa e incisiva, Silvana De Mari è autrice di libri che riduttivamente si potrebbero definire per ragazzi ma che in realtà, per la stratificazione e la possibilità di essere letti a diversi livelli, sono adatti per lettori grandi e piccoli. Silvana ha fatto il chirurgo sia in Italia che in Etiopia, come volontaria, poi, da quando le è venuto il dubbio che i mali dell’anima possano essere non meno devastanti di quelli del corpo, si occupa di psicoterapia. Combattiva nella vita come nella scrittura ha deciso di scrivere di ingiustizie, discriminazioni e ribellioni in forma di racconto. Come un antico cantastorie che racconta i fatti della vita attraverso il fantastico e la poesia della fiaba. Tra i suoi libri più recenti ci sono L’ultimo elfo e L’ultimo orco, entrambi pubblicati da Salani. Come è arrivata alla scrittura? E perché ha scelto di scrivere per i ragazzi? Ho cominciato a scrivere a sedici anni dopo aver visto il film Brancaleone alle Crociate, geniale storia ambientata in un medioevo improbabile e visionario. Ho scritto le prime righe di un racconto lungo, La strega il Cavaliere, la Morte e il Diavolo, su una versione stracciona e disperata di Bradamante, che ho poi finito trent’anni dopo. Amo ferocemente le storie. Ci sono alcuni libri che ho riletto una ventina di volte, alcuni film che ho talmente visto e rivisto che ne conosco sequenze a memoria.: volevo essere anche io un raccontatore di storie. Ognuno di noi costruisce la società cui appartiene. La scrittura è uno dei sistemi possibili per aumentare il nostro peso sulla realtà. Perché scrivo per ragazzi? La prima risposta che mi viene in mente è che io non sono uno scrittore per ragazzi, ma uno scrittore e basta. Fortunatamente i miei libri possono andare bene anche per ragazzi. In realtà qualcosa che è buono per un dodicenne, è buono anche per un quarantenne. Non sempre è valido il contrario, visto che la narrativa per ragazzi deve avere tassativamente la caratteristica di essere avvincente e veloce. La narrativa cosiddetta per ragazzi è l’unica che continui ad appropriarsi dei grandi temi, che vada per i massimi sistemi, che continui ad usare il fantastico, cioè il linguaggio metaforico che è il più profondo e il più antico. Nulla che contenga ambientazione fantastiche oggi è considerato per adulti. Nelle graduatorie dei libri più venduti il Signore degli Anelli, libro estremamente complesso che affronta i temi della provvidenza e della morte, viene sempre rigorosamente messo della narrativa infantile. Se oggi Dante tornasse a scrivere l’Inferno e Shakespeare a scrivere in Macbeth li caccerebbero nella lista dei libri per l’infanzia insieme a Geronimo Stilton. La narrativa cosiddetta per ragazzi è infinitamente più divertente. E poi una cosa letta a dodici anni resta nella mente per sempre. La trilogia iniziata con L’ultimo Elfo come è nata? Tra i quattro e i nove anni ho abitato a Trieste. Il cuore di mio padre non funzionava bene e gli erano state prescritte lunghe passeggiate. Il cane e io lo accompagnavamo, in queste marce, che spaziavano dalle scogliere al Carso, passando dalle strade della città e dai moli del porto. Fu allora che mio padre cominciò a raccontarmi complicate storie di spiritelli e gnomi, ambientate agli albori del mondo nelle foreste infinite che lo ricoprivano. E io cominciai a chiedermi, visto che le creature magiche erano dapprima esistite, per poi non più esistere, come fossero scomparse, quanto era stato terribile scomparire, se qualcuna delle creature si era accorta di essere l’ultima. Cosa avrei provato io a sapere che, dopo di me, nessuno come me sarebbe mai più esistito? Mano a mano che crescevo alle buffe storie dei folletti se ne sovrapposero altre, atroci e terribili, che nascevano dai luoghi stessi che ci circondavano. Mio padre cominciò a parlarmi delle trincee della prima guerra mondiale, che avevano traversato quegli stessi prati che noi traversavamo, seguiti dal nostro cane, lieto e felice per tutta quell’aria fresca e quella luce. Mi parlò delle Foibe, poco distati da noi, molto simili alle grotte che andavamo a visitare, e che un decennio prima erano state riempite di corpi gettati dentro vivi. Mi portò a vedere i muri della Risiera di San Saba, unico campo di sterminio sul suolo italiano. La Risiera non aveva contenuto riso ma persone, che poi erano state mandate nel posto dove è scritto che il lavoro rende liberi, e di tutte le cose che mi ha raccontato, questa memoria è la più assurda e la più indicibile. L’idea dell’ultimo elfo nasce dall’orrore del genocidio. In realtà non è nella storia del mondo, ma in quella dell’infanzia che esiste un periodo magico, dove fate e gnomi si inseguono. Quando la magia scompare, lascia il posto alla Storia, quella di Giulio Cesare e Carlo Magno, dove le fate sono state chiamate streghe e hanno avuto veri roghi nel loro destino, e dove i popoli a volte scompaiono, come già mio padre mi aveva spiegato allora e come ancora scopersi dopo, nelle desolate lande africane. Ed è quando gli archetipi fantastici incontrano la storia che si passa alla letteratura epica, perché la letteratura epica contiene l’etica di un popolo. Quando un popolo non ha una letteratura epica vuol dire che non è in grado di battersi cioè che si sta candidando a diventare un popolo di schiavi o un popolo di morti. Ne L’ultimo orco c’è anche l’idea molto poco buonista che gli Orchi si fermano militarmente. Nei campi di sterminio, a ricompattare la decenza dell’umanità che era stata perduta, sono arrivati i carri armati. E quei carri armati sono arrivati sparando su tutto quello che si muoveva Ma rispetto ad allora la disumanizzazione del nemico non è più tollerabile. Nel Signore degli Anelli sono nascosti i fantasmi della seconda guerra mondiale, inclusa la necessità assoluta di vincere per salvare il mondo. Il nemico può essere annientato senza nessun tipo di senso di colpa. Gli Orchi nascono dal fango, non hanno anima, probabilmente non provano dolore. Oggi sappiamo che tutti, anche i peggiori, coloro che hanno creato a mandato avanti il posto dove era scritto che il lavoro rende liberi, anche coloro che sognano di poter uccidere e storpiare come bombe umane il maggior numeri di bambini possibili, sono stati nel ventre di una madre e hanno una storia da raccontare. Del fantasy si parla (e spesso si “sparla”) molto di questi tempi, in un mercato sempre più alla rincorsa di successi editoriali in cui molti sembrano essersi buttati sul genere come fosse “la gallina dalle uova d’oro” spesso perdendo il senso profondo e intrinseco che sta alla base del fantasy che offre al lettore, la magia dell’evasione per poter rivivere, ripensare in una “dimensione protetta” le paure, le angosce, le difficoltà che si vivono nel reale. Cosa ne pensa della produzione contemporanea dedicata ai ragazzi? Perché ha scelto il filone del fantastico per questa trilogia? Quando la gallina dalle uova d’oro sono i maglioni di lana, è perché fa un freddo maledetto. Quando sono i ventilatori vuol dire che ci sono 40 gradi. Il Fantasy sta diventando la gallina dalle uova d’oro, perché contiene qualcosa che ci manca. C’è qualcosa nel fantasy che dà consolazione alle nostre angosce. Nel momento in cui il buio esiste e le grandi fiaccole della fede nel progresso e nella provvidenza perdono forza contemporaneamente, da qualche parte bisogna pur cercare di darsi coraggio. Come dice Tolkien, le fiabe parlano di cose permanenti: non di lampadine elettriche, ma di fulmini, e insegnano cose vere: che il buio esiste e che può essere sconfitto. Il linguaggio fantastico ha due valenze: una metaforica e una storica, ed è questo che lo rende il più antico e universale. La letteratura fantastica si è rimpicciolita con l’illuminismo. E’ stata considerata una letteratura minore, limitata ai più giovani. E’ di nuovo esplosa con il Signore degli Anelli, cioè dopo la seconda guerra mondiale, che non è solo stato il più grande massacro di tutti i tempi, con 50 milioni di morti di cui uno era il figlio di Tolkien: la seconda guerra mondiale, in quel terribile anno 1941, quando sembrava certo che Hitler avrebbe vinto la guerra è stata anche la paura che il mondo come era sempre stato finisse. Non la paura dell’anno 1000, di una fine del mondo voluto da un Dio furibondo, ma la paura di un mondo che finisce per una serie di sbagli e feroci idiozie che si accumulano oltre il punto di non ritorno. E’ una paura che non c’è mai stata prima e che da allora continua a essere ossessivamente presente in tutta la nostra letteratura e cinematografia fantastica, fantapolitica e fantascientifica. Sul piazzale di Auschwitz, dove migliaia di creature umane sono rimaste in piedi per ore e ore in un silenzio assoluto, con il terrore che la stanchezza facesse cedere le gambe, o che la pipì potesse scappare, mancanze punite con una morte atroce, è finito il concetto stesso di provvidenza. Forse il fantasy ci affascina così tanto perché è il luogo dove la cavalleria arriva sempre prima del massacro, dove in qualche maniera, alla fine, c’è la certezza che il mondo sarà salvato. Nel fantasy c’è la certezza assoluta che lo sguardo di un dio benevolo è su di noi e questo è il motivo per cui il fantasy è il racconto dove si parla della morte e il discorso è tollerabile. Il secondo tema del fantasy è la morte. Nei miei libri la morte è molto presente. Se nei libri muoiono solo i cattivi ( nel Signore degli anelli oltre a schiere di Orchi, muoiono solo Boromir e suo padre, che non sono esattamente dei gioielli di simpatia), quando un bambino o un ragazzo perde la madre la frase è “ ma che male aveva fatto mamma?”. Peggio: quando un bambino o un ragazzo sono rinchiusi in un reparto di oncologia il discorso comincia con “io che male ho fatto?”. Il dolore descritto su una pagina e protetto dal lieto fine obbligatorio in ogni Fantasy, è una possibilità di consolazione, che invece non sempre può esserci nella letteratura storica o realistica. La morte in un Fantasy è un evento che permette un’elaborazione e quindi ci può aiutare a capire come elaborare un lutto. Un tema che come un filo rosso percorre i suoi libri è quello della diversità. Quali sono le paure che più angosciano i giovani lettori di oggi? Il tema della diversità serpeggia sempre in tutte le epoche, ma è soprattutto nell’800 che compare con prepotenza nella letteratura. Fino al 1800 ci si spostava poco. Gli spostamenti erano stati ciclopici ed epocali: le invasioni barbariche, la scoperta del nuovo mondo. Nell’800 si inventano i motori a vapore e gli spostamenti diventano individuali e qualsiasi: nasce la tematica del diverso. Prima dell’800 che nasceva in un villaggio calabrese ( irlandese, spagnolo, ucraino, eccetera) ci restava: tutti parlavano come lui, mangiavano come lui, si vestivano come lui. Nell’800 molti partivano con il vapore verso il Belgio o verso Nuova York dove nessuno capiva un accidenti di quello che dicevano e dove tutto era incomprensibile. Nelle fiabe di Andersen la tematica del diverso ritorna ossessivamente: il brutto anatroccolo vorrebbe disperatamente essere uguale, come anche Pinocchio, il mostro di Frankestein. Nato nella letteratura il tema è stato ripreso e rilanciato nel cinema: Hollywood è stata in buona parte creata da transfughi dell’Europa in fuga davanti a persecuzioni millenarie che ne hanno plasmato una vera ideologia. Hollywoodiano per noi è sinonimo di superficiale e patinato, ma in realtà la tematica del diverso è stata un caposaldo di una parte non trascurabile della produzione cinematografica: è rimbalzata da un film all’altro anticipando a volte le successive battaglie per l’integrazione. Negli ultimi cinquant’anni si è formata una tribù globalizzata, dove è necessario attenersi a regole cambiate in continuazione. La tribù è un gruppo con cui ci si può identificare, così da sentirsi uguali e accettati. Noi non possiamo sopravvivere isolati: madre natura fa in maniera che quando il gruppo ci rifiuta, quando la tribù ci isola, ci venga un mortale tristezza. ( il termine tecnico è depressione: la serotonina, una sostanza che produce il nostro cervello e che ci è indispensabile per sentirci bene, crolla) Fino a 50 anni fa l’appartenenza a un gruppo era verticale: ci si comportava come padri, nonni, bisnonni e andava bene. Avevamo tutta la vita per imparare ed era difficile sbagliarsi. Ora le tribù sono orizzontali: quelli nati negli anni cinquanta hanno sentito i Beatles e portavano i jeans solo per le gite in campagna, quelli degli anni 80 sentivano gli U2 e i jeans li portavano sempre e in più c’era una giacca che si chiamava monclair. La tribù attuale ha i pantaloni bassi, il video cellulare eccetera eccetera. Chi non capisce il linguaggio e il vestiario in fretta rischia di restare escluso dalla tribù. Il termine tecnico è “sfigato”, l’essere sfigati è una colpa imperdonabile. Se avete sterminato la vostra famiglia a badilate o messo sotto un passeggino mentre guidavate strafatti, qualcuno che fa la vostra arringa e spiega che è colpa della società si trova sempre. Portare male i jeans sbagliati è un’esclusione senza appello dalla società civile. C’è un tipo particolare di diverso che spesso viene messo in croce nelle nostre scuole, spesso con la collaborazione di bidelli e insegnanti, qualche volta spinto al suicidio: è il bambino sovrappeso. Dio non voglia siate grassi. Meglio carogne. Anche i peggiori assassini qualche simpatia la raccattano sempre. I grassi mai. L’essere umano nasce con un’unica competenza: un pianto disperato che ha il compito di attirare l’attenzione di qualcuno che ci nutra. Quindi nella nostra testa l’informazione non sono stato abbastanza nutrito e non sono stato abbastanza amato sono fuse e confuse, mediate dagli stessi neurotrasmettitori, portate delle stesse sinapsi. Quando non ci sentiamo abbastanza amati, può innescarsi un meccanismo che trasforma la desolazione in fame. In una società che disprezza i grassi questa può diventare e diventa una trappola mortale. L’idea ridicola e idiota che i grassi siano sciocchi privi di forza di volontà continua a imperversare. L’insegnante che consiglia al bambino grasso di mettersi a dieta davanti a tutta la classe, il bidello che sempre davanti a tutti fa commenti sulla merendina, commettono un crimine: danno l’autorizzazione ufficiale al martirio. Quando ero bambina ogni due o tre anni facevamo un trasferimento: ho alle spalle una lunga carriera da straniero. Mia madre insegnava in montagna, partiva alle sei del mattino, tornava alle quattro del pomeriggio; a quell’ora era tardi uscire. Bisognava anche calcolare il tempo per i lavori di casa, che sono sempre stati fatti in maniera impeccabile, inclusi quelli grandiosamente inutili, come stirare gli strofinacci da cucina e un’altra attività demenziale che si chiamava dare la cera. Spesso, per giorni e giorni, uscivo solo per andare a scuola. Ho cominciato a mangiare e a leggere per fare passare i pomeriggi. Ottime idee entrambe, ma quando parlo delle persecuzioni dei bambini grassi, fidatevi, so di cosa parlo. Nei suoi libri gli orchi hanno un’anima, sono bambini le cui mamme non hanno saputo trasmettere l’amore per la vita. Non ci sono quindi buoni e cattivi, bianco e nero ma bisogna saper guardare oltre lo stereotipo, la facciata, andando con coraggio dentro se stessi. E’ un messaggio molto forte per i ragazzini di oggi, importante soprattutto in questi tempi di fondamentalismo e di estremismo. Nei suoi incontri con i ragazzi quali reazioni, commenti ha avuto su questo punto? Mi chiedono qual è la soluzione perché non ci siano più orchi. Mi chiedono cosa bisogna fare. Non è una domanda difficile. La risposta c’è già, è già stata data. Le istruzioni ce le ha già date Martin Luther King. Giudicate gli atti di un uomo indipendentemente dal colore della sua pelle, della sua religione. Questa è la regola e si applica sempre. Quando nel Texas c’è la condanna a morte di un condannato facciamo un enorme opposizione non violenta: cartelli, bandire, candele, articoli di giornali. E’ giusto: diciamo ai nostri fratelli texani che secondo noi stanno facendo una cosa sbagliata. Perché non facciamo la stessa cosa con i paesi che condannano a morte una donna per aver osato pensare di esser padrona del proprio corpo e della propria anima. Ci sono nazioni che condannano a morte una donna per aver osato sentire il vento nei capelli. Non dovremmo stare tutti giorni davanti alle loro ambasciate con fiori e candele, non con spranghe di ferro, a dire il nostro orrore e a comunicare la nostra solidarietà ai dissidenti di quelle nazioni. Dissidenti che esistono e sono tanti e che noi abbandoniamo. Se in nome di quella terribile forma di ipocrisia che è il politically correct rinunciamo a combattere il dolore delle donne calpestate, i loro figli verranno con le cinture esplosive a ricordarci che il mondo è troppo piccolo per ignorarne un pezzo. Nel primo periodo della sua vita, la psiche del bambino fa blocco unico con quella madre. Le loro emozioni non possono essere disgiunte. Un mondo di pace non nascerà mai fino a quando le donne saranno miserabili e schiave. Una creatura umana impara il senso della propria unicità dalla propria madre e non può farlo se lei non lo possiede. Le società di uomini liberi sono formate da individui. I totalitarismi hanno la struttura del formicaio o dell’alveare: l’individuo è negato, inidentificabile, sostituibile, irriconoscibile. Una donna schiava può diventare madre di un Orco oppure di uno schiavo: il suo dolore diventa la ferocia del figlio oppure la sua acquiescenza al mondo dei padri e dei nonni che non osa modificare in nulla, mai, creando un mondo sempre uguale a sé stesso, con regole immutabili, così da negare la propria stessa umanità, perché la caratteristica della creatura umana è il pensiero, l’assunzione di responsabilità, la capacità di cambiare la propria società e la propria cultura. Società e culture che rimangono immutate nei secoli sono luoghi di umanità negata, luoghi dove non è neanche necessario perseguitare l’eresia, perché l’eresia non si crea nemmeno. Il fantasy non è inventato. E’ nella vita vera che ci sono le grandi eroine, le regine guerriere, le combattenti che armate di niente altro che della forza della ragione e del coraggio si battono contro i mostri e contro Nazgul. Parlo di Ayaan Hirsi Ali, Charhdortt Djavann, Azar Nafisi, Taslima Nasreen ( leggete i loro saggi!) e tutte le altre che hanno osato parlare in nome dell’umanità contro la barbarie, la ferocia, la crudeltà, il sadismo e l’idiozia e stanno pagando con il costante pericolo della loro vita il bene inestimabile del pensiero libero. Sta già scrivendo il seguito de L’Ultimo Orco? Può darci qualche piccola anticipazione? Il seguito ci sarà senz’altro e saranno almeno altri due libri. ( potrebbero essere tre perché prevedo che uno dei due sarà piuttosto grosso e potrebbe forse essere spezzato in due) In un’affollatissima conferenza in occasione della Fiera di Bologna ha detto che le fiabe dicono che si può e si deve sperare nel futuro. E’ questa speranza che cercano i ragazzi oggi nei libri? Questa è la speranza che tutti cercano sempre e ovunque. Era questa la speranza che negli antichi villaggi della Tessaglia o dell’Inghilterra spingeva persone povere a separarsi da un pezzo del loro prezioso pane e cipolla per ascoltare il cantastorie che parlava di Ulisse o di Re Artù. La redazione di FOR KIDS desidera ringraziare Silvana De Mari per questa lunga ed appassionata intervista che è stato concordato unanimemente, e senza alcun dubbio, di riportare in forma integrale. Bibliografia sintetica: L’ultima stella a destra della luna, Salani, 2000. La bestia e la bella, Salani, 2003 L’ultimo elfo, Salani, 2004 L’ultimo orco, Salani, 2005. A cura di Laura Ogna maggio 2006 FOR KIDS Tutti i diritti riservati

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